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mercoledì 28 settembre 2016

I BAMBINI PERDUTI

Il corpicino di Aylan, restituito dal mare, giace riverso sul bagnasciuga. Era il 3 settembre 2015. Questa immagine deflagrò con tutto il suo carico di orrore e commozione sulle prime pagine dei giornali e squarciò, per un giorno, il velo di indifferenza che avvolge il dramma dei profughi. Fatto sta che la foto-choc indusse diversi capi di governo a dichiararsi disponibili ad aumentare il proprio impegno in campo umanitario. Ma se Aylan non fosse affogato in quella tragica fuga dalle bombe e avesse poggiato vivo i piedi sulla stessa spiaggia turca dove invece è arrivato esanime, non sarebbe stato accolto da braccia amorevoli e sguardi teneri. Ad attenderlo avrebbe trovato lo stesso destino crudele che ora soggioga i suoi compagni di giochi, i tanti bambini profughi, che, invece di ricevere cure e protezione, di andare scuola e di giocare, sono schiavizzati e costretti a svolgere lavori duri e pericolosi per sopravvivere. Sì, perché tra le più odiose conseguenze della guerra, c’è l’impressionante incremento del lavoro nero minorile, sia tra i bambini sfollati in Siria sia tra quelli che si sono rifugiati all’estero, con le loro famiglie o da soli. In Turchia, Giordania, Libano, Iraq e perfino in Grecia, i bimbi rifugiati diventano manovalanza a bassissimo costo per fabbriche, cantieri, campi agricoli, allevamenti, ristoranti e negozi. Le famiglie hanno dato fondo a tutti i loro risparmi, le Nazioni Unite hanno ridotto i servizi per i rifugiati e tagliato gli aiuti, così i bambini si sobbarcano il pesante carico di sfamare la propria famiglia, accettando qualunque lavoro. Così finiscono per svolgere lavori sempre più pesanti e rischiosi, perfino raccapriccianti, come «raccogliere le parti del corpo di chi è stato ucciso per cremarlo». Uno stato di necessità e vulnerabilità che li rende facile preda di coloro che vorrebbero arruolarli in una delle parti in conflitto, come sempre più spesso succede in Iraq. Anche Isis e gli estremisti violenti hanno le loro scuole e preparano molto bene. Ottengono prestazioni altissime dai loro allievi, che "per la causa" arrivano a uccidere o a uccidersi.

Non solo le organizzazioni umanitarie, ma anche i media internazionali, da sempre, inanellano inchieste che denunciano le condizioni di sfruttamento dei bambini rifugiati. In particolare in Turchia, dove si concentrano tre milioni di profughi siriani: non per loro scelta, ma perché sono bloccati dal governo di Erdogan, con cui l’Unione europea ha stretto un accordo affidandogli il compito di controllare la frontiera balcanica: in pratica, di tenere i rifugiati fuori dall’Europa. Per questo piantonamento, la Turchia riceverà ben sei miliardi di euro. Un patto osteggiato fin dalla prima ora dalle organizzazioni umanitarie: La Turchia non era uno stato democratico prima e lo è ancor meno adesso, dopo il fallito golpe militare. Vi sono fin troppe evidenze della violazione dei diritti umani, fondamentali per poter affidare la gestione di persone di qualunque provenienza alla Turchia. Dopo la dura repressione, le purghe di massa e la ventilata possibilità di reintrodurre la pena di morte, sono sempre di più quelli che chiedono alle istituzioni europee di liberarsi dell’abbraccio mortale di Erdogan. In un coraggioso reportage mandato in onda a maggio del 2016 dalla trasmissione Piazza Pulita di La7, si vedono bambini chini davanti alla macchina da cucire o che hanno le mani bruciate da sostanze chimiche. Altri sono impegnati ore e ore dietro un banco nella lavorazione di scarpe da ginnastica. Tutti prodotti che poi raggiungono il mercato europeo e vengono venduti sulle bancarelle per pochi euro. E non solo su quelle, anche griffe molto diffuse potrebbero essere coinvolte. Grandi marchi come H&M e Next, dopo aver scoperto che nella loro filiera c’erano minori sfruttati, hanno denunciato con molta trasparenza l’accaduto. Ma al di là dei problemi di salute, questi bambini non sono più dei bambini: hanno perduto per sempre la loro infanzia.

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